Siamo credo in molti a dovere qualcosa a Mario Seccia, alla sua intelligenza errabonda e al suo continuo ritrarsi, per eccesso di discrezione, di fronte alla banalità del quotidiano, con le sue meschine logiche di prevaricazione ai suoi disincantati silenzi, alla sua tragica coscienza dell’inutilità del fare, accompagnata da un gusto perverso per una lenta ma inesorabile cancellazione delle proprie tracce, quasi a scusarsi di aver avuto la presunzione di lasciarne. Vorrei però evitare, come mi pare stia accadendo da un pò di tempo, di continuare nei suoi confronti il rito della “gratitudine trasversale” che se è certo preferibile ai continui colpi diretti a cui siamo invece ormai tutti sottoposti, specie nel piccolo ma tormentato ghetto di frustrati qual’è quello della cultura e non solo quella romana, rischia tuttavia di renderlo isolato simulacro intoccabile e sempre più lontano.
A Mario debbo anche il fatto poi di avermi aiutato, assieme ad altri, a ricostruire pazientemente quella complicata vicenda dell’apprendistato dell’architettura a Roma negli anni sessanta, vicenda così strettamente connessa alla realtà culturale più complessiva e politica di quegli anni che per ragioni anagrafiche oltrechè geografiche non ho vissuto. Da anni così sto cercando di ripercorrere e di ripensare in termini critici e storici quella stagione felice, non per ragioni accademiche o sentimentali, ma perchè mi sembra sia stata quella una delle ultime grandi occasioni mancate della cultura italiana e non solo di quella architettonica, che potrebbe aiutarci a capire meglio l’odierna situazione di stallo. Alfredo de Santis è uno dei silenziosi protagonisti di quegli anni che Mario mi ha incoraggiato a scoprire ed a conoscere nella sua reale portata. E con lui mi pare che si stia avviando alla sua conclusione la restituzione da parte mia di quegli anni , come una sorta di grande mosaico le cui tessere ho imparato a riconoscere, giusto a Roma, prima solo dai nomi che sentivo ripetere cui, poi ho cercato di affiancare volti, ruoli, pubbliche virtù e vizi privati, per giungere infine ad una specie di grande ritratto di famiglia. E se oggi si possono nominare i singoli protagonisti con i loro nomi, se si possono evocare storie straordinarie anche solo citando nomi caricatisi ormai di una loro mitologia, come quello di Franco, di Mario, di Duccio, di Azio, di Valentino o di Alfredo è perchè le loro storie intrecciate ed i loro destini, pur divaricandosi, hanno configurato, assieme a pochi altri nomi, una compattezza dirompente che a distanza di anni continua a far sentire la propria carica propositiva, la propria generosità e l’euforia del fare che sottintendeva quella solidarietà culturale.
Per Alfredo, la frequentazione di diversi ambiti disciplinari, dal disegno alla grafica, dall’illustrazione alla pittura, è coincisa almeno agli inizi, con una attenzione allargata dai differenti orizzonti figurativi di quegli anni che a Roma, a differenza di quanto succedeva nell’ambito milanese, legato all’avanguardismo del dopo Fontana e percorso dagli esiti dirompenti dell’informale freddo di Piero Manzoni, sembravano caratterizzati secondo due opposti versanti. Si andava dalla tarda eredità della polemica tra astratti e concreti, frutto della lontana contrapposizione tra E. Vittorini e P.Togliatti e almeno per quanto riguarda le arti visive tra L. Venturi e R. Longhi ,ancora in auge per la battagliera presenza dei protagonisti del gruppo d’avanguardia di Forma 1, come A. Perilli, P. Dorazio e altri, alla declinazione, del tutto romana, con le sue specificità quindi, del fenomeno pop, reso però più partecipato, se non addirittura caricato di un imprevedibile romanticismo, nell’immagine e nella materia pittorica, senza quel “rigor mortis” tipico dell’esperienza americana. Ed proprio questo secondo filone che Alfredo de Santis sembra allora privilegiare e data da quegli anni il suo rapporto con un artista come M. Schifano. Attua però una specie di inversione di marcia, rispetto alla tendenza di quella figurativa. All’esasperazione dimensionale sostituisce l’estremamente piccolo sin quasi ad ottenere un rovesciamento ottico. Al tentativo di fuoriuscire dai limiti fisici della tela, per una storia di vitalismo incontrollato, contrappone l’idea di frammento circoscritto con l’ossessione per il concetto di limite davvero inconsueto in quegli anni. Al gusto per il colore che trasborda, quasi colando lungo la tela, sostituisce la campitura tese e tersa. E questo cambiare i connotati ad un’esperienza ormai codificata, faceva immediatamente cogliere la esatta collocazione del suo discorso figurativo che tendeva così a costituirsi come universo di segni che permettessero di travalicare i limiti e le separazioni tra i diversi campi di applicazione. Il risultato era allora, ed è ancora oggi, quello di una narrazione continua in cui la ripetizione non va letta come coazione a ripetere, sul versante di quella “ripetizione differente” che da G. De Chirico in poi si è andata qualificando, secondo la definizione di P. Fossati, come “pittura a programma”, ma piuttosto come continua sistemazione di piccoli tasselli che operando progressivi e piccoli spostamenti del racconto, ne arricchiscono continuamente il significato complessivo. Le sequenze allora legate ad un’unica immagine, come quelle della poltrona di Mary che in maniera ossessiva ritornerà in infinite versioni, così come quella del tappeto volante, o più recentemente, quella degli accampamenti dei pittori o degli alberi, andranno lette non come desiderio di chiarezza a se stessi prima che agli altri, secondo l’ottica del concetto più volte ribadito per una sua migliore comprensione, ma come arricchimento e registrazione continua di dati sempre nuovi e sempre diversi. Perchè queste “serie” tutto devono registrare: l’attimo in cui sono state concepite, l’ambiente che le ha provocate, le memorie che vi fanno continuamente incursione, infine quella loro sottile malinconica condizione di essere ridotte a puri oggetti di affezione, che trapassano dal privato della loro condizione, quasi di “ex voto” di Alfredo, a quella più solare di elementi di una narrazione continua. E se la pittura sembra prendere sempre più corpo, anche nella sua accentuazione materica, è quel deserto in cui sembrano immersi gli alberi, e il gesto ancora carico di voglia di urlare di quei segni appena intaccati dall’ironia divertita che li sottende, è il senso panico di quelle figure che fanno corpo col paesaggio, sino a liquefarsi nello stesso, a svelarci il senso di quelle evocazioni. E questo, altro non è che la registrazione dell’esistenza con il suo peso, con la sua durezza, ma anche con la sua carica di fascinazione che permette ancora, e nonostante tutto, di poter vagheggiare nella spazialità dell’ “en plain air “ o nel trasfigurato, per incanto, atelier dell’artista, come mitiche figure, quelle trascurabili presenze di una microstoria sempre portata ad assumere i toni della rivelazione di un ordine superiore e confronto serrato tra microcosmo e macrocosmo.