Biografia2021-09-20T09:44:50+00:00

BIOGRAFIA

Sono nato a Roma il 10 Agosto 1941. Ho cominciato a disegnare all’età di sei anni sui rotoli di carta Fabriano, che nei tempi duri del dopoguerra mio padre, architetto delle Ferrovie dello Stato, riusciva a procurarsi nel suo studio. Ho frequentato il liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti di Roma negli anni in cui insegnavano Turcato, Consagra e Mafai. La mia formazione artistica però è avvenuta anche, e sopratutto, tra il gruppo di fantastici coetanei che in quel periodo avevano come luogo d’incontro la libreria “Ferro di Cavallo”, gestita da Agnese de Donato e frequentata da Schifano, Novelli, Burri, Perilli, Sinisgalli, Pagliarani, Giugliani. Eravamo un gruppo di ragazzi appiedati che ogni giorno approdavano in quel tridente di strada che sfocia su piazza del Popolo e a via Ripetta avevamo creato i nostri accampamenti in stanze e locali che allora era facile affittare. Ci univa la passione per il grande cinema realista della nostra infanzia e per l’Antonioni dell’Eclisse e della Notte. Avevamo interminabili discussioni su Le Corbusier, Wright, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Kline, Burri, i cui supporti iconografici venivano catturati al “Ferro di Cavallo”. Ci spostavamo in gruppo alla scoperta di altre città. Ricordo nel 1961, un approdo a Venezia, in occasione della mia prima personale di pittura alla galleria “Il Traghetto”. Nel gennaio del 1962 conobbi Folco Lucarini, un incredibile miscuglio di artigiano, grafico, boxeur, gourmet e donnaiolo, che mi convinse a partire con lui per Milano su due piedi. M’installai nel suo studio di grafico nella via Verdi degli anni sessanta. Sopra gli enormi tavoli neri, unico arredamento della grande stanza dove trascorrevo le mie ore (tranne le puntate serali al “Jamaica”), la carta le colle, le riviste, diventavano i personaggi  delle storie che andavo inventando. Fu li che scoprii il segno come racconto, sollecitato dalle incredibili confessioni di una dirimpettaia che veniva a confidarmi i suoi terrori fallici. Nacquero così le Storie dell’Agnese Crotti (così si chiamava la ragazza). In quella stanza, di cui conservo un ricordo olfattivo di carta stampata, di cow-gum, di umido e di ferro, imparai ad amare i lavori di Michele Provinciali, Pino Tovaglia, Giancarlo Iliprandi e Folco Lucarini, stampati sui “Quaderni Imago” che editava la Bassoli Fotoincisioni. Quegli anni milanesi furono una grande lezione di  metodo e di libertà inventiva, che mi fecero scoprire la mia doppia natura di narratore a cavallo tra la grafica e la pittura, che si ostina a non cancellare l’ambiguo margine tra il segno e il colore.

Dal 1964, anno in cui sono tornato a Roma e ho aperto il mio primo studio professionale, i miei lavori hanno spaziato tra l’editoria, la politica e il cinema, interessi che non ho mai abbandonato. Ho disegnato per la casa editrice Bompiani e per la Emme Edizioni alcuni libri per ragazzi e per la AMZ di Milano una favola industriale sulla nube di Seveso. Per la Nuova Italia Scientifica, il progetto grafico. La nuova veste grafica del quotidiano “Il Lavoro” di Genova. Per la campagna elettorale delle elezioni politiche del 1972, una serie di manifesti per il PSIUP. Dal 1973 al 1977, ho progettato la parte grafica del settore stampa e propaganda della federazione romana del PCI. Ho curato numerose rassegne cinematografiche come Le Giornate del Cinema Muto, La Mostra Internazionale del Telefilm, La Commedia all’italiana. Ho realizzato molte sigle grafiche per i cicli cinematografici della RAI. A queste attività ho sempre affiancato il mio lavoro di pittore con un diario grafico-pittorico che mi ha portato negli anni a creare storie come: Alfazoo, Il Tappeto volante, L’occhio americano, La poltrona di Mary, I giorni della fionda. Nel 1985, invitato da Francesco Moschini a ripercorrere il “viaggio delle mie storie” in una mostra, mi sono accorto che per raccontarlo agli altri dovevo montarne le sequenze. Nasce così “Il percorso del segno” che è anche un commento alla mostra personale fatta, nel settembre 1985, alla Galleria A.A.M. Architettura Arte Moderna di Roma, cui è seguita una successiva mostra nel 1992 nella stessa Galleria A.A.M., dal titolo “Sogno in Val D’Orcia”, dedicata alle opere nate da quel contesto e ad esso ispirate. I miei lavori sono stati pubblicati da: Novum, Art Directors Club Milano, Idea, Graphicus, Modern Publicity, Visual Design, Pubblicità in Italia, Deco Press, Graphis, Linea Grafica, Italian Illustrators, ABC Verlag Zurich, Ottagono, Domus, Japan Pubblications Trading Co.

L’AFFABULATORE DEL SEGNO – Gianfranco Torri

Tutto era iniziato dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti: gli incontri alla libreria Ferro di Cavallo (con Schifano, Burri, Perilli, Sinisgalli), il breve soggiorno a Milano (nell’epoca d’oro dei “Quaderni Imago” di Provinciali, Tovaglia, Iliprandi e Lucarini) e, nel 1964 con il ritorno a Roma e l’apertura del suo studio.
L’elenco dei lavori realizzati è lungo, e passa dai libri per ragazzi (per l’Amz, Bompiani, Emme Edizioni) al coordinamento dell’immagine di iniziative cinematografiche (le giornate del Cinema Muto, Teleconfronto), dalle sigle per la Rai al lavoro di grafica politica alla stampa e propaganda della Federazione Italiana del PCI, al Manifesto, l’impostazione dell’ultima serie di Rinascita e il primo progetto editoriale di Liberazione. Ma al di là di un primo elenco (necessariamente sommario), ci sembrava importante accennare al suo successivo trasferirsi al di fuori di una dimensione, quella romana, che riteneva divenuta assai meno stimolante che in passato. La scelta di andare a vivere con Carla Conversi a Monticchiello è infatti coincisa con una fase assai importante della sua attività di quegli ultimi anni. Lavora per il Teatro Povero di cui crea nel 1987 l’immagine. Il suo rapporto di reciproco scambio tra pittura e segno grafico trova in questa nuova dimensione nuova forza ed espressività.
Gli anni più recenti lo hanno visto al centro di un’intensa rete di scambi, confronti, discussioni (con l’amico De Bartolomeis in particolare), interventi appassionati e carichi di volontà di incidere sulla realtà. L’approfondimento del suo discorso di ricerca (portato avanti in collaborazione con il figlio Brando) lo ha visto proseguire nel coordinamento dell’immagine di un’industria (la Val Cucine di Gabriele Centazzo), facendo confluire in quest’ultima esperienza tutta l’evoluzione della sua recente produzione orientata in senso formale. E’, probabilmente, nell’intuizione della serie di oli del 1980 “Accampamenti dei pittori” il senso del recupero del gesto, della materia, del senso del colore; la dimensione che meglio riassume il senso della sua attività, il suo sentirsi pittore anche nei confronti dei limiti degli orizzonti di molte delle figure attive nel campo della comunicazione visiva italiana. Era un ciclo che si chiudeva, un ritorno agli amori e alle passioni della sua gioventù. Un percorso personale, rigoroso e senza facili concessioni, ma sempre estremamente aperto al confronto, alla ricchezza della realtà in cui agiva. Un’indicazione, una maniera di lavorare e di vivere.

DESIGN COME INVENZIONE – Marta Sironi

Ricognizione dell’opera del grafico-pittore Alfredo de Santis (1941-1998)

Rappresentante di spicco della scuola romana di grafica, Alfredo de Santis (1941-1998) ha definito un linguaggio grafico del tutto personale, caratterizzato da una continua commistione con il cinema, la pittura, il disegno, creando una grafica con forte valenza pittorica. Nonostante l’importanza del suo apporto, l’improvvisa e prematura scomparsa e la mancanza strutturale di attenzione alla storia della grafica, hanno contribuito a nascondere le tracce di una figura atipica, per la quale ricerca artistica e pratica comunicativa hanno costituito un unico indissolubile cammino. Secondo le sue stesse parole tutto ciò che realizzava apparteneva “a una matrice di idee, simboli, di emozioni, anche nel caso del lavoro strettamente professionale”.
La presenza di un ricco archivio privato, custodito a Roma presso l’abitazione dalla moglie Carla Conversi da sempre anche compagna di lavoro, oggi preziosa e imprescindibile testim one del suo lavoro, permette di restituire il giusto tributo a un grande interprete della comunicazione visiva del XX secolo. Oltre ai lavori su commissione, fino alla metà degli anni Ottanta parzialmente sintetizzati dallo stesso de Santis nella monografia Alfredo de Santis “Il Percorso di un Segno” (1986), attraverso l’archivio è possibile ricostruire il suo intero iter creativo-progettuale. Dei lavori realizzati sono infatti conservate buste con bozzetti e appunti, ma anche numerosi taccuini che mostrano il brainstorming di un designer che si affidava essenzialmente alla libertà espressiva del segno, capace nel tempo di codificare elementi ricorrenti – la ruota, l’albero, l’uomo, l’occhio, la mano, la penisola italiana – capaci di esprimere questioni mai superate – il razzismo, la mafia, l’ambiente … argomenti sui quali interveniva e che portava come argomento di discussione e progettuale nella didattica allo IED di Roma. Questa sua attenzione all’impatto sociale del lavoro creativo si ritrova anche in alcuni cicli pittorici che raccontano momenti cruciali della contemporaneità: come le serie pittoriche Segni sul muro, del 1990 in risposta alla caduta del muro di Berlino, Intervento chirurgico del 1991 per la guerra del Golfo, così come i progetti grafici sull’Europa dell’Est e su Sarajevo, condotti con Gianfranco Torri. Ogni taccuino di de Santis riporta una dissertazione grafica su questioni d’attualità, come lo studio dell’immagine per le elezioni politiche in Italia dell’aprile 1992 che ha dato poi avvio a un racconto lirico in bianco e nero sulla fine della Prima Repubblica (si veda immagini allegate).
Nato nell’agosto 1941, inizia a disegnare prestissimo grazie alla disponibilità di carta, anche in tempo di guerra, data dalla professione del padre, architetto dello Stato. Dopo gli studi all’Accademia d’Arte di Roma con Turcato, Consagra e Mafai, è fondamentale il soggiorno a Milano nello studio di Folco Lucarini dove viene in contatto con la fucina della grafica italiana, nella Milano capitale dell’editoria e dell’industria in espansione. Nel 1964 decide di rientrare a Roma e portare nell’humus prettamente artistico della Capitale le leggi e le esigenze di un nuovo linguaggio grafico. È la libreria Ferro di Cavallo di Roma (al pari della Milano Libri, a Milano) il ritrovo di giovani artisti e intellettuali che ancora prima della pittura condividevano il grande amore per il cinema, dal neorealismo con cui erano cresciuti al cinema di Antonioni.
Tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta Alfredo de Santis realizza alcuni progetti editoriali per ragazzi: Alfazoo pubblicato nel 1968 dalla Emme edizioni di Rosellina Archinto, e libri-gioco per Bompiani (Io gioco tu giochi noi giochiamo e Basta un foglio di carta, 1971-72).
Dal 1971 sono sue numerose sigle grafiche per i cicli cinematografici della RAI: Cinema anni 60, La Commedia all’Italiana, Teleconfronto (1983-86), Le Giornate del Cinema Muto. Del resto l’ampia cultura cinematografica e la propensione per l’immagine in movimento determinano la cifra del suo linguaggio grafico. Nell’82 disegna l’immagine identificativa del festival “Le giornate del cinema muto” di Pordenone e dell’85 è l’immagine di un progetto di ricerca sulla commedia all’italiana, così come il logo e molti poster per il Teatro povero di Monticchiello.
Il cinema è di certo la principale musa di de Santis padre di un’immagine grafica in movimento così come di un metodo progettuale che si sviluppa in una serrata sequenza d’immagini (come frame di un film) dove l’intuizione creativa trova il suo svolgimento fino all’immagine definitiva, aspetto tra l’altro approfondito nel suo libro Storyboard. Grafica d’animazione. Segni, sequenze, storie (La Nuova Italia Scientifica, 1989), pensato tra l’altro come base didattica ai suoi corsi allo IED di Roma.
L’altro aspetto essenziale della sua grafica è la definizione della comunicazione visiva di giornali e della propaganda del PCI dal 1973 al ’77. Nel 1979 ridisegna il quotidiano genovese “Il Lavoro”, nell’84 una campagna abbonamenti per “La Repubblica” e dall’85 le illustrazioni “il Manifesto” e il redesign di “Rinascita”. Oltre al contributo alla politica, il suo lavoro grafico è stato impiegato nella definizione dell’immagine coordinata in ambito sportivo – per il campionato mondiale femminile di sci a Piancavallo nel 1986 e per gli Europei di basket a Roma nel 1991 – e aziendale, per esempio per la Valcucine di Gabriele Centazzo.
Un percorso professionale e creativo tutto da ricostruire, anche in base alla letteratura critica e alla pubblicazione dei suoi lavori sulle principali riviste di grafica, italiane e internazionali: “Novum”, “Art Directors Club Milano”, “Idea” (Giappone), “Graphicus”, “Modern Publicity”, “Visual Design”, “Pubblicità in Italia”, “Graphis”, “Linea Grafica”, “Italian Illustrators”, “Ottagono”, “Domus”, “Japan Pubblications Trading Co”.

PITTURA/OGGETTO – Francesco De Bartolomeis – Torino 2 / 6 / 1982

E’ facile e persino banale notare che molti elementi del modo di disegnare e di dipingere di Alfredo de Santis derivano, certo con mediazioni, dalla sua esperienza di grafico. Un artista in ogni caso è la sua esperienza ma anche la continuità dei tentativi di liberarsi di essa con un ritorno a zone che sembrano precedere le acquisizioni, le prove di sicura abilità. Riportarsi nell’incertezza, accettare attivamente la perdita di significati. Tutto ciò è necessario. Dunque un togliere un ridurre, un negare appoggi narrativi, concentrandosi invece su un oggetto, su un gesto paradossalmente fermo. E così lo spazio è puramente mentale: non c’è distinzione tra sfondo e primo piano, e per l’inversione non c’è bisogno di ricorrere a illusioni ottiche. E ancora: oggetti senza funzioni, elementi che si equivalgono al di là della loro riconoscibile differenza. E un ulteriore risultato di esistenza mentale, di astrazione. La pittura diventa protagonista come simbolo: è resa sia figurativamente (Il cavalletto, il quadro, la tela) sia nella struttura della pennellata a onde lievi e trasparenti. E la distinzione/funzione si ripropone nelle soluzioni cromatiche: equivalenza del colore indipendentemente dalle esigenze realistiche degli oggetti. Perchè la pittura, il pittore? Una sorta di riflessione trasposta sul proprio mestiere. Il professionista del disegnare e del dipingere, il manipolatore di immagini, la persona alle prese con rapporti e con significati, il grafico dunque, oggettiva qualche simbolo del suo lavoro o tutto se stesso. E dall’interno del suo lavoro quotidiano emerge ciò che vuole essere diverso. La pittura nella pittura come il teatro nel teatro: qualcosa e il suo doppio senza specularità ma con un rapporto di ambiguità e di finzione che poi è niente altro che il creare. La tela e il foglio non sono il supporto specifico del dipinto, sono lo spazio, il simbolo di tutto lo spazio, e perciò l’artista ne può occupare solo una parte in quanto non lo ha interamente a disposizione. Nello spazio, pochi particolari, a volte appena accennati. Anche l’uomo è un particolare: e questo non lo sminuisce perchè lo rapporta a una totalità indefinita. Uomo nel paesaggio come poltrona e cavalletto nel paesaggio. Relativismo: nessuna cosa è preponderante anche quando è da sola. L’accentuazione isola, e invece a de Santis interessano i rapporti, per costruire immagini e accendere emozioni insieme alla natura. L’artista non vuole appropriarsi della natura perchè ciò significherebbe farle violenza, opporsi ad essa con la perenne presunzione dell’antropologismo. Modelli. Quindi simboli? Inevitabilmente. Ma non simbolismo o pesantezza di metafore e di allegorie. Cose e accadimenti per caso, ma con la necessità di ciò che ricorre nell’esperienza, anche nei sogni. Alfredo de Santis figurativo. Ma in quale quadro di riferimento? Con quali apparentamenti? Prima il problema generale. E’ una conquista critica di larga acquisizione che l’astratto non si colloca irreversibilmente lungo la linea evolutiva del figurativo. D’altra parte non si può dire che ci sia uno spiccato senso della differenziazione qualitativa dei risultati così da distinguere ciò che è ricerca e ciò che è premeditazione. Certamente de Santis è tra i ricercatori con una riflessione inventiva sulla pittura come mezzo e come oggetto. La concettualità e non solo la visibilità della pittura ha sempre preso a soggetto se stessa: i simboli del dipingere, il tema, indefinitamente variato, del “pittore e la modella”, i tubetti che colano colore (Arman), Jim Dine con il suo quasi catalogo di colori, Roy Lichtenstein con i suoi Brushstrockes, isolamento di una larga e sinuosa pennellata gigante su una rada puntinatura di clichè. E’ nata l’esigenza dell’immagine come nuova ricerca che sa dei progressi della figurazione nella fotografia, nel cinema, nella tv e non come ritorno al passato, anche se in questo movimento si sono infiltrate escavazioni in superfice nel passato dell’arte, citazioni che ripresentano con ambiziose intenzioni l’omaggio a…., fino ad arrivare alla più recente e già stantia rivisitazione. Come attestato di pluralismo, si pensi anche alle possibilità offerte dell’elaborazione elettronica delle forme e del colore sia nelle comuni trasmissioni tv sia nella video-art. Se le forme sono ancora da esplorare e da ricombinare per imporre un nuovo stile è già maniera e facilitazione affidarsi al concettuale (che pretende di dire molto di più di quanto rappresenti) o a un’astrazione incapace di riprendere il suo confronto con la realtà. E forse che l’astrazione al suo nascere non trae forza dall’essere realistica, ad esempio, in Kandinskij? Senza fittizi accostamenti (altra cosa è la storicizzazione di un prodotto), senza indebite gerarchie, una valutazione dell’opera di de Santis ci costringe a rimettere in campo i problemi essenziali dell’arte, addirittura la giustificazione dell’arte che non è sicura una volta per tutte.

LA PITTURA COME NARRAZIONE – Francesco Moschini

Siamo credo in molti a dovere qualcosa a Mario Seccia, alla sua intelligenza errabonda e al suo continuo ritrarsi, per eccesso di discrezione, di fronte alla banalità del quotidiano, con le sue meschine logiche di prevaricazione ai suoi disincantati silenzi, alla sua tragica coscienza dell’inutilità del fare, accompagnata da un gusto perverso per una lenta ma inesorabile cancellazione delle proprie tracce, quasi a scusarsi di aver avuto la presunzione di lasciarne. Vorrei però evitare, come mi pare stia accadendo da un pò di tempo, di continuare nei suoi confronti il rito della “gratitudine trasversale” che se è certo preferibile ai continui colpi diretti a cui siamo invece ormai tutti sottoposti, specie nel piccolo ma tormentato ghetto di frustrati qual’è quello della cultura e non solo quella romana, rischia tuttavia di renderlo isolato simulacro intoccabile e sempre più lontano.
A Mario debbo anche il fatto poi di avermi aiutato, assieme ad altri, a ricostruire pazientemente quella complicata vicenda dell’apprendistato dell’architettura a Roma negli anni sessanta, vicenda così strettamente connessa alla realtà culturale più complessiva e politica di quegli anni che per ragioni anagrafiche oltrechè geografiche non ho vissuto. Da anni così sto cercando di ripercorrere e di ripensare in termini critici e storici quella stagione felice, non per ragioni accademiche o sentimentali, ma perchè mi sembra sia stata quella una delle ultime grandi occasioni mancate della cultura italiana e non solo di quella architettonica, che potrebbe aiutarci a capire meglio l’odierna situazione di stallo. Alfredo de Santis è uno dei silenziosi protagonisti di quegli anni che Mario mi ha incoraggiato a scoprire ed a conoscere nella sua reale portata. E con lui mi pare che si stia avviando alla sua conclusione la restituzione da parte mia di quegli anni , come una sorta di grande mosaico le cui tessere ho imparato a riconoscere, giusto a Roma, prima solo dai nomi che sentivo ripetere cui, poi ho cercato di affiancare volti, ruoli, pubbliche virtù e vizi privati, per giungere infine ad una specie di grande ritratto di famiglia. E se oggi si possono nominare i singoli protagonisti con i loro nomi, se si possono evocare storie straordinarie anche solo citando nomi caricatisi ormai di una loro mitologia, come quello di Franco, di Mario, di Duccio, di Azio, di Valentino o di Alfredo è perchè le loro storie intrecciate ed i loro destini, pur divaricandosi, hanno configurato, assieme a pochi altri nomi, una compattezza dirompente che a distanza di anni continua a far sentire la propria carica propositiva, la propria generosità e l’euforia del fare che sottintendeva quella solidarietà culturale.
Per Alfredo, la frequentazione di diversi ambiti disciplinari, dal disegno alla grafica, dall’illustrazione alla pittura, è coincisa almeno agli inizi, con una attenzione allargata dai differenti orizzonti figurativi di quegli anni che a Roma, a differenza di quanto succedeva nell’ambito milanese, legato all’avanguardismo del dopo Fontana e percorso dagli esiti dirompenti dell’informale freddo di Piero Manzoni, sembravano caratterizzati secondo due opposti versanti. Si andava dalla tarda eredità della polemica tra astratti e concreti, frutto della lontana contrapposizione tra E. Vittorini e P.Togliatti e almeno per quanto riguarda le arti visive tra L. Venturi e R. Longhi ,ancora in auge per la battagliera presenza dei protagonisti del gruppo d’avanguardia di Forma 1, come A. Perilli, P. Dorazio e altri, alla declinazione, del tutto romana, con le sue specificità quindi, del fenomeno pop, reso però più partecipato, se non addirittura caricato di un imprevedibile romanticismo, nell’immagine e nella materia pittorica, senza quel “rigor mortis” tipico dell’esperienza americana. Ed proprio questo secondo filone che Alfredo de Santis sembra allora privilegiare e data da quegli anni il suo rapporto con un artista come M. Schifano. Attua però una specie di inversione di marcia, rispetto alla tendenza di quella figurativa. All’esasperazione dimensionale sostituisce l’estremamente piccolo sin quasi ad ottenere un rovesciamento ottico. Al tentativo di fuoriuscire dai limiti fisici della tela, per una storia di vitalismo incontrollato, contrappone l’idea di frammento circoscritto con l’ossessione per il concetto di limite davvero inconsueto in quegli anni. Al gusto per il colore che trasborda, quasi colando lungo la tela, sostituisce la campitura tese e tersa. E questo cambiare i connotati ad un’esperienza ormai codificata, faceva immediatamente cogliere la esatta collocazione del suo discorso figurativo che tendeva così a costituirsi come universo di segni che permettessero di travalicare i limiti e le separazioni tra i diversi campi di applicazione. Il risultato era allora, ed è ancora oggi, quello di una narrazione continua in cui la ripetizione non va letta come coazione a ripetere, sul versante di quella “ripetizione differente” che da G. De Chirico in poi si è andata qualificando, secondo la definizione di P. Fossati, come “pittura a programma”, ma piuttosto come continua sistemazione di piccoli tasselli che operando progressivi e piccoli spostamenti del racconto, ne arricchiscono continuamente il significato complessivo. Le sequenze allora legate ad un’unica immagine, come quelle della poltrona di Mary che in maniera ossessiva ritornerà in infinite versioni, così come quella del tappeto volante, o più recentemente, quella degli accampamenti dei pittori o degli alberi, andranno lette non come desiderio di chiarezza a se stessi prima che agli altri, secondo l’ottica del concetto più volte ribadito per una sua migliore comprensione, ma come arricchimento e registrazione continua di dati sempre nuovi e sempre diversi. Perchè queste “serie” tutto devono registrare: l’attimo in cui sono state concepite, l’ambiente che le ha provocate, le memorie che vi fanno continuamente incursione, infine quella loro sottile malinconica condizione di essere ridotte a puri oggetti di affezione, che trapassano dal privato della loro condizione, quasi di “ex voto” di Alfredo, a quella più solare di elementi di una narrazione continua. E se la pittura sembra prendere sempre più corpo, anche nella sua accentuazione materica, è quel deserto in cui sembrano immersi gli alberi, e il gesto ancora carico di voglia di urlare di quei segni appena intaccati dall’ironia divertita che li sottende, è il senso panico di quelle figure che fanno corpo col paesaggio, sino a liquefarsi nello stesso, a svelarci il senso di quelle evocazioni. E questo, altro non è che la registrazione dell’esistenza con il suo peso, con la sua durezza, ma anche con la sua carica di fascinazione che permette ancora, e nonostante tutto, di poter vagheggiare nella spazialità dell’ “en plain air “ o nel trasfigurato, per incanto, atelier dell’artista, come mitiche figure, quelle trascurabili presenze di una microstoria sempre portata ad assumere i toni della rivelazione di un ordine superiore e confronto serrato tra microcosmo e macrocosmo.

I GIORNI DELLA FIONDA – Aldo Colonetti

Alfredo de Santis presenta una storia, “i giorni della fionda”, attraverso la quale il segno, trasformandosi materialmente e spazialmente, comunica eventi diversi e si adatta a diverse strategie informative, dove l’unico elemento comune è un’immagine che non ha storia. Non ha storia, perchè il suo racconto si sviluppa al di fuori dei tradizionali contesti professionali: qui infatti, si presentano le immagini che ricompongono la storia della fionda. La fionda è un pretesto, è una forma, non è un simbolo; ma la sua struttura geometrica consente le più svariate utilizzazioni. Alfredo de Santis ricerca, quale grafico e pittore, le potenzialità semantiche di questo strumento, senza perdersi in un gusto o esclusivamente decorativo o strettamente funzionale al committente. E’ come se la cultura progettuale di de Santis, una volta messa in moto intorno a un’idea, a un’intuizione, insegua ostinatamente una meta che è sempre oltre: la grafica come ricerca di nuove potenzialità comunicative. Questa è la dimostrazione che un racconto si può sempre costruire, anche intorno a un’idea o a un’ipotesi ancora imprecisa e poco definita nei suoi confronti semantici; fondamentale è l’organizzazione dei segni, il loro rapporto con il testo, il controllo delle parti. Essenziale diventa, conseguentemente, la cultura del progettista: la fionda può trasformarsi in un’immagine per il Teleconfronto, una mostra internazionale del telefilm; in una sequenza cromatica per un calendario; o può illustrare, mutando lo sfondo e facendola interagire con altri elementi più o meno allusivi, una copertina della rivista Rinascita, in occasione di un dibattito su Chernobyl.
Contemporaneamente de Santis rielabora, separandola dal contesto più strettamente funzionalismo -grafico, l’idea-forma Fionda; ed ecco, allora, gli olii su legno e cartapesta, il legno e il gesso, colori ad olio su legno e gesso. Sono opere, queste, destinate a un pubblico diverso rispetto a quello di una tradizionale comunicazione grafica, ma soprattutto, finalizzate a una ricerca, tutta all’interno di una poetica dove, questa volta sì, il simbolismo e l’uso attento di alcuni materiali, oltrepassano una stretta e qualche volta fredda necessità di tipo più tradizionalmente professionale. Anche questo tipo di ricerca fa parte della cultura del progetto, ma attenzione: non tutti coloro i quali possiedono una doppia formazione disciplinare, grafica e pittorica, sono in grado poi di sintetizzare questo cumulo di esperienze, in una immagine chiara dove l’ambiguità del segno sia sotto il controllo, pur parziale, della ragione. Alfredo de Santis è un progettista che conosce il limite delle due discipline, per cui ne utilizza le potenzialità, senza mai sfondare completamente i confini dell’una e dell’altra: questa qualità si chiama professionalità, che significa anche rinunciare alla facilità di una mano e di una tradizione artistica, per evidenziare, invece, la necessità eticopolitica di una chiarezza e semplicità linguistica.

LAVORARE CON ALFREDO – Gianfranco Torri

Eravamo agli inizi degli anni ottanta e ci davamo appuntamento a Roma per le prime riunioni di un progetto di Biennale della grafica italiana, e si discuteva molto di cinema e di politica. Le visite allo studio di Alfredo costituivano, per me, l’incontro con il suo mondo dei segni, il bianco e il nero assoluto: quello che sarebbe diventato la serie dei Giorni della fionda (1984). Pensavo fosse interessante riproporli, metterli in “circolazione” anche a Torino. Occasione che si sarebbe presentata con “Sisifo”, il periodico di idee, ricerche, programmi dell’Istituto Gramsci piemontese. Ne curavo l’impaginazione, proponendo l’incontro con le immagini di un autore che ritenevo particolarmente significativo. Nell’aprile del 1985 compare, così, la serie di interventi, realizzati da Alfredo, per la Federazione Italiana Circoli del Cinema sui film della Commedia all’italiana. Annotazioni visive per una serie di incontri, tavole rotonde e proiezioni: a partire da Vivere in pace di Luigi Zampa (1946) fino a Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (1977). Un cinema che discutevamo, che amavamo e che delineava il percorso della società italiana di quel trentennio. Alfredo così descriveva il suo lavoro:” inizio a disegnare silhouette dell’Italia al centro di una striscia di pellicola, poi disegno fotogrammi, fabbriche, cineprese, uomini che agitano lunghe strisce di pellicola. Scelgo l’uomo e la cinepresa, l’uomo e l’Italia e il fotogramma ben teso tra due pali”. I segni neri, stampati su una carta color paglierino, sono forti e si affiancano quasi contrapponendosi alle colonne dei testi pubblicati nelle 52 pagine della rivista.
Nei successivi due anni, dopo gli appuntamenti della mostra di Cattolica e quello torinese di Segnopolis, nasceva nella periferia della città il Mese della grafica di Grugliasco. Alfredo collaborava, con Mario Cresci, alla presentazione della prima edizione con incontri dedicati a insegnanti e studenti della città. Il primo appuntamento espositivo era dedicato al Manifesto francese di pubblica utilità ed era stato possibile grazie ai rapporti stabiliti con un folto gruppo di grafici e alla collaborazione con il Syndicat National des Graphistes.
Nel frattempo, a cura di Giovanni Lussu, iniziava l’uscita di una collana della Nuova Italia Scientifica dedicata a un primo gruppo di grafici italiani: Mario Cresci, Alfredo de Santis, Roberto Pieracini, e chi scrive. Presentata a Roma, alla galleria Architettura e Arte Moderna nel 1989 e in Francia al primo Mois du graphisme de Echirolles nel 1990.
Ma è la seconda edizione del Mese della grafica, dedicata al Manifesto dell’Est.
Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria del 1989, che suscita l’attenzione di Alfredo. Mi propone di presentarla all’Istituto Europeo di Design di Roma, in cui in quel momento dirigeva con Carla Conversi il dipartimento di Grafica e Illustrazione e di realizzare una pubblicazione che documentasse i principali aspetti dell’iniziativa. L’impatto e l’interesse per le immagini che venivano presentate per la prima volta in Italia facevano riferimento a una storia, a una cultura (e a una censura) che caratterizzavano fortemente quel blocco che si era liberato dal controllo dell’URS e che guardava all’Occidente con grande aspettativa. Al centro dell’incontro l’attenzione ai linguaggi della grafica culturale e il loro intreccio con i forti cambiamenti sociali e politici in atto. Con discussioni che partivano dall’attualità per risalire fino a Walter Benjamin di “Strada a senso unico”. Emerge qui un altro aspetto non secondario della personalità dell’autore: una maniera di intendere il suo ruolo e la sua responsabilità a livello dell’insegnamento della grafica, intesa come continua attenzione e confronto con le tendenze non omologate nel campo della comunicazione visiva internazionale. Un filo che accomunava la sua attività alla necessità della documentazione e alla riflessione su quanto avveniva intorno a noi, in quegli anni. Un fare grafica, come nel caso dell’immagine e della comunicazione del Teatro Povero di Montichiello, che ho avuto occasione di presentare in una lezione all’University of Industrial Arts di Helsinki in occasione di un soggiorno di studio in Finlandia.
L’urgenza dell’essere presente, al di là della realizzazione pura e semplice dell’artefatto comunicativo, era, infine, alla base del contributo di Alfredo alla mostra “Sarajevo, urgente”, nel 1994. Il progetto, partito da Karel Misek a Praga, era stato ripreso in Francia (Centre Georges Pompidou, Mois du graphisme) e proponeva una serie di manifesti dedicati a Sarajevo, assediata dalle truppe serbe, come capitale culturale dell’Europa. La mostra era poi giunta in Italia (Mese della grafica, Galleria Aiap di Milano, Dopolavoro Ferroviario di Bologna) raccogliendo una serie di contributi italiani. Ma il rischio era quello di rivolgersi a un pubblico di addetti ai lavori, un contarsi tra quelli che erano già d’accordo nella denuncia dei fatti.
La proposta di Alfredo, oltre il manifesto, consisteva in un piccolo manuale di 24 pagine con esempi di quanto si poteva fare per comunicare in maniera diversa: con striscioni, adesivi, pieghevoli e locandine rivolti a pubblici di diverse situazioni in cui discutere e prendere iniziative. Segni semplici da riprodurre e moltiplicare nelle scuole, per le associazioni, nelle università. Una grafica effettivamente utile che cercasse di contribuire a mandare avanti le cose, cioè che servisse.
Nel volgere di quella decina d’anni, in Europa e in Italia, era successo di tutto, e non necessariamente di meglio. L’idea di Alfredo era quella di agire in uno spazio circoscritto ma con il massimo di intelligenza, di capacità di utilizzo dei suoi strumenti per essere presente e incidere nel suo e nel nostro tempo. Attivamente.

Intervista di Francesco De Bartolomeis ad Alfredo de Santis

(Per una grande mostra, poi sospesa, da tenersi a Torino nel 1998)

Il lavoro del grafico si è molto complicato al punto che si può dire che, come il regista, non fa tutto da solo. Ci pone di fronte a diverse competenze e ai rispettivi livelli (da quelli creativi a quelli tecnici) che devono riuscire a collaborare.

Non vorrei che si pensasse subito al computer, che pure è ormai essenziale. Non è possibile evitare il tema dei rapporti con le tecnologie che significa anche collaborazione di competenze diverse. Questo non è in contraddizione con il fatto che, almeno nel mio lavoro, una grande parte, l’esecuzione materiale, non è solo di tipo grafico. Spesso ho proprio bisogno di costruire oggetti, cosa che implica la conoscenza di materiali e di procedimenti. A volte parto dal segno che ottengo su un linoleum, ma anche che incido su lastre di piombo per farne formelle. La ricerca sulla qualità del segno ha un posto centrale nel mio lavoro. Ci sono tante differenze di spessore, di grana.  Il nero del disegno è diverso dal nero del toner e questo più che portare ad una sostituzione deve stimolare e profittare delle differenze.

Mi pare che proprio questo atteggiamento di ricerca che valorizza anche le tecniche tradizionali ti caratterizza in modo molto preciso.

Certo bisogna conoscere tutte le strategie per ottenere la diversità del segno, perché si imponga, nel variare, come un particolare stile. Dal segno grafico mi spingo verso il segno intaglio e verso il segno incisione. E sono affascinato dal design e dalla scenografia. Quanto a quest’ultima che cos’altro fa il grafico se non mettere in scena immagini da cui si ripromette il massimo potere comunicativo?

Non è una forzatura, parlando di stile, dire che siamo nel campo dell’arte, di un’arte allargata. Nel tuo caso hai a che fare con l’arte sia con l’attività di grafico sia in modo indipendente.

Il grafico, come ogni altro artista, quale sia il mezzo di cui si serve, sta nel contemporaneo, nel quotidiano. Ed è questo che gli assegna una committenza, ossia lo spinge a trovare determinate forme, a concentrare in una sola immagine o a metterle in sequenza. Quindi egli da vita a simboli con una particolare riconoscibilità. Non parlo in generale, mi riferisco a me. Al di là della pratica professionale sento il bisogno di visualizzare il mio mondo. Non c’è sdoppiamento: il mio mondo è la matrice da cui attingo sia per la committenza professionale sia per la mia “libera” attività di artista.

Lo so che si può dire dell’arte in generale, ma nel tuo lavoro vedo molto evidente la magia della trasformazione. Forse trasformazione è termine più forte, più pesante di creazione.

In realtà ho bisogno di partire da cose particolari, che a volte sembrano anche estranee rispetto a ciò a cui intendo arrivare. Ma poi mi accorgo che queste cose sono essenziali per dare carattere di necessità, e quindi di simbolo ben radicato, a quanto riesco a fare. Ho bisogno di usare le mani, di tagliare, di incidere, di assemblare. Non si tratta di operazioni puramente tecnico-manuali perché impegnano una concezione della vita.

E’ questo anche per me il punto che ha una posizione centrale. Il grafico, come l’artista, non può contare tutto sulla abilità. Deve avere cose da dire, essere pressato dal bisogno di dirle: avere un mondo che si proietta sulle cose, sugli eventi e su ogni tipo di immagine da trasformare.

Il grafico, come io intendo, partecipa alla vitalità di problemi, di contenuti, di soluzioni: si sente il fascino dei grandi miti (ad esempio il vaso di Pandora) e anche di cose comuni che nascondono simboli profondi (ad esempio, la fionda che sfida con la sua elementarità di giocattolo il prepotere). Il grafico non estetizza restando all’estremo delle cose. Se devo fare la copertina di un libro devo conoscerlo a fondo per dare il senso, con il mezzo grafico, di una mia interpretazione.

L’arte ha sempre adoperato le tecnologie a disposizione ma secondo suoi propositi, perciò senza che si verificasse un abbassamento della creatività, anzi questa aveva la possibilità di percorrere strade prima chiuse. Le tecnologie avanzate modificano sostanzialmente non solo il processo produttivo ma anche l’ideazione, i suoi sviluppi e la qualità del prodotto.

Il computer è una nuova potente opportunità e bisogna saperne profittare. Non c’è ragione, servendosi del computer di smaterializzare, per così dire, l’intero processo, trascurando del tutto, ad esempio, le caratteristiche del supporto cartaceo, e il contributo che possono dare all’efficacia di un’immagine. Come pure non c’è ragione per non rendere collaborativi i rapporti tra il grafico e la tipografia. Certo il computer è uno strumento con una potenza e una versatilità che mai sono stati così grandi. Ma il protagonista resta l’individuo (o l’equipe) che riconosce le nuove opportunità e le mette a profitto di un più alto grado di efficacia della ricerca.

Tu parli di autocommittenza, quella che ti porta a guardarti intorno, a tenere un diario di segni che cresce e si modifica insieme al lavoro.

Come di recente ho scritto, il diario di segni consiste nel “visualizzare attraverso il proprio mestiere, concetti, luoghi, legami, pezzi di storia, la quotidiana lettura del giornale, il parlare con la gente, il bisogno di rendere visibili alcuni oggetti”…

Artisti insospettabili come Kandinsky e Mondrian hanno un concetto positivo della funzione: essa è stimolante in luogo di produrre uno scadimento per ragioni utilitaristiche. Due grandi artisti dunque dalla parte dei grafici, senza contare i molti artisti che furono grafici rivoluzionari quali, ad esempio, Schlemmer, Moholy Nagy, Rodcenko, El Lisitskij

Il grafico è un esperto di comunicazione multimediale e ha il problema di contribuire a migliorare il più largamente possibile la comunicazione. Non si tratta di estetizzare la comunicazione ma di darle forme e strutture che le consentano di raggiungere i suoi scopi, eliminando gli elementi di disturbo. Vanno curate anche le scritte e le immagini che si riferiscono alle cose comuni della quotidianità. Perciò il primo problema è la comunicazione ordinaria nelle diverse situazioni per favorire comprensione e rapporti al posto di fraintendimenti e di estraneità.

In quanto dici vedo implicito un concetto che da sempre mi ha molto interessato, quello della bellezza diffusa. La bellezza non va riservata alle opere d’arte segregate nei musei ma deve essere mescolata alle cose comuni della vita come una bella giornata, i colori dei fiori, la gradevolezza e la comodità dell’arredo urbano…

Questo è uno degli obiettivi fondamentali ai quali cerco di essere fedele. E’ cosa che si comprende se si penetra il modo di lavorare del grafico. Se non ci formalizziamo sulle parole ma consideriamo le qualità tecniche e creative o, come tu dici, i processi di trasformazione delle esperienze, dando sempre grande importanza ad una buona conoscenza dei materiali e degli strumenti, la competenza si amplia senza sapere sin dove si spingerà. Si amplia assumendosi nuove responsabilità.

SIMBOLI E MITI – Francesco de Bartolomeis

(Primi appunti dopo un incontro a Monticchiello 8 dicembre 1998)

La grafica può avere tutte le caratteristiche per affermarsi come arte nelle forme più diverse. Ma ci sono anche grafici che svolgono una attività indipendente di artisti, cioè dipingono, modellano, incidono usando tecniche miste, ecc. E’ il caso di Alfredo de Santis. D’altra parte se si considera come nascono i suoi prodotti grafici si evita l’equivoco di ritenere che egli decida di concedersi il piacere di passare alla pittura e ad altre forme espressive rientranti nell’arte, senza che ci sia una ragione intrinseca. Il fatto è che la matrice dell’attività di grafico di de Santis è già artistica in direzione non solo della pittura. Perciò non c’è traversamento, passaggio dalla grafica a forme artistiche indipendenti. Questo non toglie che nel lavoro strettamente grafico ci siano da risolvere nuovi problemi per corrispondere a una determinata committenza. Che cosa significa che de Santis nella sua attività di grafico si comporta da artista per così dire non grafico? La grafica è arte, ma qui voglio mettere in evidenza il particolare modo di praticarla di de Santis, che lo porta su strade di solito non percorse. Egli molte volte crea un oggetto manualmente in cui i simboli che lo colpiscono acquistano originalità stilistica. I prodotti possono essere sagome (figure o cose) ritagliate da fogli di piombo o formelle di creta o di piombo incise o assemblaggi di materiali vari che creano microscenografie: filo metallico, spago, pietra, stoffa, piombo e anche parti dipinte. Questa realizzazione artistica, che ha una sua autonomia, può essere utilizzata per corrispondere, con necessari mutamenti, a una particolare committenza. La trasposizione in un prodotto grafico avviene in vari modi, a seconda delle esigenze: un insegna, un manifesto, un logo. La copertina di un libro può utilizzare la fotografia di un oggetto artistico, per conservare il carattere e ottenere effetti non raggiungibili altrimenti. Se la soluzione  grafica ha bisogno di un oggetto fatto di una determinata materia, con una determinata fisionomia compositiva in cui entrano rapporti di vari elementi e di varie dimensioni, de Santis non può che seguire la via della costruzione manuale. Per questa ragione la matrice del pittore e del grafico è la stessa e la manualità coesiste con l’uso di tecnologie avanzate. Forse la poltrona di Mary, pennarello su carta del 1974 è opera che può essere considerata come inizio di una storia di simboli e di una caratterizzazione stilistica. Non meno interessante, dello stesso anno, è Poltrona con cuscino, progetto di un grande dipinto, di un murale. La forma progettuale-grafica, introduce alla soluzione pittorica. Pittore con cuscino del 1975 complice il riduzionismo del colore con l’associazione misteriosa dell’immagine. Il cuscino come la poltrona esce dalla sua determinatezza rappresentativa e si trasforma in simbolo in Cuscino paesaggio del 1980. Più specificatamente nel 1980/81 de Santis contraddice la sicurezza dell’abilità e del mestiere con Prove di pittura. Egli si concentra su quel qualcosa di misterioso e di rivelatore che è il colore sulla tela da cui si forma una immagine i cui significati dimostrino di andare al di là della rappresentazione.
E’ come se l’Artista volesse sperimentare con forme molto elementari una occupazione espressiva dello spazio, implicando sia la natura sia un oggetto casuale sia gli strumenti del dipingere e il pittore all’aperto nel gesto del dipingere. L’artista presenta, per così dire, un “programma”. Nella prima direzione: Paesaggio con albero, Il tetto rosso 1981; nella seconda direzione: Poltrona con albero 1981 e nella terza, come a sottolineare il carattere di esercizio, tre opere dal titolo Disegno dal vero 1981, in cui vengono disegnati gli strumenti del dipingere, e sempre del 1981, Pittore e paesaggio. E’ la ricerca di un atteggiamento verso la pittura, in una situazione in un certo verso scoraggiante se si considera, come de Santis stesso dice, che è difficile liberarsi dalla sensazione che nella pittura tutto sia stato fatto. Sente di dovere cominciare daccapo. Un racconto della pittura come metodo, mettendo in evidenza i suoi materiali e strumenti, la stesura del colore. Racconto non lineare proprio per cogliere aspetti essenziali della realtà. L’ambizione di portare sulla tela indizi di realtà si trova a fronteggiare una serie di ambiguità: tra natura e pittura, tra pittore e dipinto, tra dentro e fuori, tra lo spazio limitato dello studio e l’aperto senza limiti. Nel 1982 sembra che l’immagine abbia trovato una organizzazione evidente: la tela-paesaggio viene dominata dal gesto del pittore che però non lascia alcuna traccia rappresentativa sulla tela. Ma l‘assenza ha peso. D’altra parte per de Santis non ha senso mettere in mostra tutte le abilità del mestiere del pittore. Perciò evita le riprese che perfezionino particolari, il colore su colore che impreziosisca con variazioni e velature, non per abbandonarsi a una facilità esecutiva ma per dare prevalenza a una lunga incubazione di forme che sono simboli che ritornano. Ed è come se la pittura potesse continuare a vivere a definirsi ulteriormente senza alcun intervento dell’artista. Attesa che la pittura si compia. “Devo meravigliarmi anch’io di come affiorano forme e colori”. A volte la meraviglia sembra nascere da una situazione negativa, quando il pittore è presente anche se nel paesaggio ci sono soltanto grandi tele e gli strumenti del dipingere. Perchè è presente la pittura. Il titolo è fondamentale per concludere l’opera anche se molto spesso i titoli sono comuni, non hanno niente della metaironia di Duchamp o il particolare surrealismo di Klee. Nelle opere del 1982/84 la pennellata, indipendentemente dall’ampiezza nasce dal segno. de Santis non ha bisogno di nascondere il suo essere grafico quando dipinge. La morfologia e l’anatomia dei dipinti è comandata dal gesto, ma è gesto-segno. L’ambiguità è veramente tale se resta inspiegabile. L’ampia tela distesa nel paesaggio è telero che diventa tenda o addirittura accampamento. Per rafforzare la sua presenza nella natura o non piuttosto per non sfuggire, nella chiusura e nella protezione, al confronto inquietante con la natura? Un altro sviluppo dell’ambiguità. Il pittore non ambisce a privilegi è semplicemente uomo, diventa soggetto egli stesso modello, ma è sulla tela, assorbito da essa. E la poltrona che è ricorrente a partire dal 1974 con le soluzioni cromatiche e compositive più diverse? Oggetto-personaggio di cui non si comprende la presenza: in un interno che equivale all’esterno o accanto a un albero o, più tardi, complicato come altri oggetti, dal simbolo-fionda. Il minimalismo riguardo agli oggetti della pittura li fa rappresentare  solo da una straccio da i colori confusi e da un tubetto che non ha più colore da dare. Altre volte uno zoom porta in primo piano particolari che non aspettano di essere completati. L’avventura di una umile fionda, nata dalla costruzione materiale dell’artista, comincia nel 1987. Una sfida senza presunzione contro le terribili complicazioni tecnologiche. La fionda si espande ovunque: Personaggio e fionda, Poltrona con fionda, Tevere e fionda, tutte opere del 1987. La fionda una presenza personale sulla natura, sulle cose. Più tardi alto simbolo persistente, Il vaso di Pandora; anzi un insieme di simboli contrastanti che acquistano forma di mito.
Nel 1988/89 si intrecciano in una sorte di regressione (la serie di Primi passi) quasi un inizio di apprendimento e uno spiccato interesse per il contemporaneo che diventa racconto. L’interesse per il racconto produce mutamenti dei procedimenti pittorici e della stessa concezione della pittura. Il colore è più sommario e semplice. Emerge il Portatore, simbolo del muoversi, dell’andare in un posto, di comunicare. Ma che cosa e dove? La determinatezza sarebbe contro il tipico modo di essere delle espressioni di de Santis tanto ancorate alla realtà quanto aperte all’immaginario, all’onirico, a vicende inesplicabili eppure necessarie. Sogno in val d’Orcia, nel sogno che si libera, si spazia ma anche si provano angosce. Le opere si susseguono come sequenza di un film di animazione, costruiscono storyboard che raccolgono simboli fuori dal sogno. Il quotidiano si amplia a grandi temi e a grandi tragedie del nostro tempo.
Nel 1990 Segni sul muro, una risposta alla caduta del muro di Berlino. Un bisogno di raccontare che cerca di superare la maniera dei graffiti e di trovare segni in cui ci siano non solo la storia ma anche le emozioni umane. Così come in Intervento chirurgico 1991, l’orrenda operazione della guerra del Golfo. Il discostamento non irreversibile, dalla pittura è completo quando de Santis, per dare maggior peso alla materia “trovata” si serve di forme ritagliate di piombo. Del 1996 è Interno Italiano; del 1997 Portatore (simbolo che ritorna e si complica), Legami, T-shirt, Corteo. Negli stessi anni de Santis crea opere in cui al piombo si aggiungono ad altri materiali trovati (fili, pietre, stracci) con esiti estranei a un nuovo dadaismo. Ne risultano microscenografie che sono paesaggi, interni, il misterioso trovarsi insieme di simboli in un luogo indeterminato. Ma l’aspetto più interessante è che resta preminente l’aggancio con la realtà per quanto egli si tenga lontano dal realismo. Una realtà rispetto a cui l’artista prende posizione, che è una necessità per la stessa fisionomia stilistica delle sue opere.

PUBBLICAZIONI

1967  Alfazoo – Emme Edizioni – Milano

1971  Basta un foglio di carta – Bompiani – Milano

1971  Io gioco tu giochi noi giochiamo – Bompiani – Milano

1974  L’occhio americano – Roma

1976  C’era una nuvola – AMZ – Edizioni – Milano

1986  Il percorso di un segno – Vianello libri – Treviso

1989  Story Board – Nuova Italia Scientifica – Roma

MOSTRE PERSONALI E COLLETTIVE

1971  Grafica e Serigrafia – Arflex – Roma

1973  Grafica Italiana – Lisbona

1977  Tatto – Materia – Aosta

1978  Il manifesto politico – Galleria del Leuto – Roma

1982  Visual Design, 50 anni di grafica italiana – Milano

1984  Grafica di pubblica utilità – Cattolica

1985  Il percorso di un segno – Galleria A.A.M. – Roma

1986  Immagine grafica Teleconfronto. Chianciano terme (Si)

1986  Segni e sogni – Firenze

1986  I giorni della fionda – Galleria Alzaia – Roma

1986  Progetto grafico – Galleria Inarch – Roma

1987  Disegni per il teatro povero – Monticchiello (Si)

1989  Quattro modi di fare grafica – Galleria A.A.M. – Roma

1990  Mese della grafica – Echirolles, Grenoble – Francia

1990  Sogno in Val d’Orcia – Monticchiello (Si)

1990  Aspetti del manifesto italiano Plzen – Polonia

1991  Il manifesto italiano – Pècsi – Ungheria

1991  Sogno in Val d’Orcia – Galleria A.A.M. – Roma

1993  Grafici romani – Pècsi – Ungheria

1994  Il tappeto parlante – Roma

1996  Fax against nuclear testing: Exbitions around the world

2014  Sogno in Val d’Orcia – Monticchiello (Si)

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